A parlare d’infanzia si rischia spesso di fare inutile retorica. Si rischia di cadere nel banale, di girare uno dei tanti film politicamente corretti che risultano in definitiva vuoti. Ma di certo il concetto di banale è estraneo a Takeshi Kitano, regista che, nel mondo, viene generalmente associato ai gangster movie e al sottogenere degli Yakuza film. Proprio per la volontà di staccarsi da questo legame e dalle continue domande sulla violenza nei suoi film da parte dei giornalisti, Kitano gira un film decisamente atipico all’interno della sua cinematografia, citando solo per vie traverse il mondo della Yakuza.
Uscito nel 1999, L’estate di Kikujiro (Kikujiro no Natsu) è una commedia presentata in concorso al 52° Festival di Cannes. La trama è quella di un classico road movie: Masao è un bimbo che abita a Tokyo con la nonna. Arrivata l’estate e con la scuola finita, i suoi compagni sono tutti partiti per il mare, mentre lui resta da solo in città . Dopo aver trovato in un cassetto di casa una foto e l’indirizzo della madre, che non ha mai conosciuto, decide di intraprendere un viaggio per andare a incontrarla. Suo complice sarà Kikujiro (per quasi tutto il film chiamato semplicemente “Signore”), vicino di casa, assieme a sua moglie, della nonna. È la moglie a convincere il marito a partire con Masao, promettendo di dire alla nonna che sarebbero andati un paio di giorni al mare. Kikujiro è però un uomo burbero e sbruffone (il film ci fa intuire che sia un membro della Yakuza, senza però mai dirlo chiaramente) a cui non interessa per nulla aiutare il giovane nella sua impresa.
Il film risulta diviso in due grandi atti. Nel primo i due protagonisti intraprendono il viaggio verso Toyohashi, città in cui si trova la madre di Masao, attraversando varie complicazioni spesso causate dall’irresponsabilità di Kikujiro. Basti pensare, ad esempio, alla primissima parte del viaggio, in cui l’uomo, ben lontano dall’idea di portare veramente il bambino da sua madre, spende tutti i soldi che la moglie gli aveva dato in scommesse. Qui il tema dominante è la speranza del giovane, che non viene mai intaccata nonostante il viaggio si rivelerà arduo, che si contrappone alla rassegnazione e alla delusione del secondo atto, che porterà i due a tornare a Tokyo.
I personaggi che incontrano durante il loro viaggio si trovano spesso ai limiti di ciò che la società ritiene normale: un poeta che attraversa il Giappone in un minivan, due bikers, due fidanzati senza meta. Del resto anche loro non sono per nulla la rappresentazione del cittadino medio. Particolare attenzione andrebbe fatta sul personaggio di Kikujiro (che pare sia ispirato in gran parte dal padre delle stesso Kitano, con cui il famoso regista non ha mai avuto un buon rapporto). Il suo comportamento egocentrico e sfrontato pare suggerire un animo ancora infantile e poco maturo, cosa che, insieme ad un problematico rapporto con la madre, lo avvicina di molto a Masao.
Il racconto procede, a partire dell’inizio del viaggio, per capitoli, che il regista scandisce mostrandoci quelle che sono fotografie istantanee nel quaderno del giovane Masao che riassumono l’estate del bambino, passando così ad una narrazione fatta di flashback. È importante notare come questo permetta a Kitano di utilizzare lo strumento dell’ellissi temporale con grande insistenza, anche all’interno della stessa scena, come nel caso, senza spoilerare nulla, della scena in cui Kikujiro ha un diverbio con un camionista che aveva precedentemente rifiutato di dare ai due un passaggio.
Nel corso del film ci sono poi delle sequenze oniriche, sempre di Masao, in cui la messa in scena ricorda la tradizionale rappresentazione giapponese del teatro delle marionette.
La violenza, non del tutto assente, viene sempre relegata al fuori campo, senza quindi essere mai mostrata allo spettatore. Uno stratagemma che viene usato a scopo comico, trasformando scene che in un normale film di Kitano avrebbero provocato in noi disgusto per la loro efferatezza in momenti comici per alleggerire l’aura cupa dei personaggi.
In campo registico è anche importante sottolineare l’ uso della soggettiva e dello sguardo in camera “à la Ozu”, oltre ad un ampio uso della macchina fissa, che va a determinare un ritmo piuttosto lento insieme a lunghi silenzi, necessari alla poesia del racconto, che resta sempre tra il surreale e l’iperrealismo. Notevole è anche la colonna sonora, composta da Joe Hisaishi, conosciuto ai più come il compositore della maggior parte delle musiche dei film di Hayao Miyazaki, che non invade mai la narrazione ma viene usata spesso tra i vari capitoli della storia.
In conclusione, L’estate di Kikujiro è uno dei film più particolari ed anche complessi di uno dei migliori registi asiatici del periodo moderno, che riesce a portarci l’incanto di una fiaba e del mondo visto attraverso gli occhi di un bambino (ed un adulto eternamente immaturo) mescolandolo con la disillusione di personaggi ai margini della società . Una visione più che consigliata, specialmente a tutti quelli che odiano Kitano.