Se volessimo fermarci un secondo per quantificare l’intera offerta di serie tv che vengono prodotte nel mondo, probabilmente ci troveremmo a constatare che la cifra immaginata è inferiore a quella reale. Siamo inondati di storie, non c’è dubbio su questo, ognuno di noi può scegliere a seconda dei propri gusti un’evasione personale dalla realtà. Così come accadde alla letteratura e al cinema, anche la produzione di serie tv sta catalizzando l’immaginazione delle persone, che come moderne Emma Bovary hanno sempre più sete di storie che le facciano mettere in stendby l’esistenza, appagandosi attraverso l’esperienze, seppur finte, dei protagonisti dei propri show preferiti. Se per la nostra generazione letteratura e cinema erano già arti ampiamente consolidate, non si può dire certo lo stesso per l’arte degli show tv, che negli ultimi tempi sta esplodendo con tutta la sua forza visionaria monopolizzando la nostra attenzione, imponendosi come una delle principali forme d’intrattenimento.
Dinanzi a tale splendore, bisogna dire che siamo piuttosto fortunati a poter scegliere, oltre ad una libreria e ad una sala cinematografica, un altro luogo di sospensione dal quotidiano tanto efficace. Muoversi all’interno di questa enorme offerta di titoli non è semplice, ed ognuno deve scegliere con cautela per non ritrovarsi in un percorso, spesso molto lungo, che non soddisfi le sue esigenze.
Va detto, che probabilmente la cosa più divertente è proprio scegliere la serie tv che si vuole guardare, bisogna soppesare i propri gusti, le voglie del momento, le opinioni altrui, per poi approdare finalmente in una meritata evasione.
La mia ultima meritata evasione -e ripeto meritata- s’intitola 3%, una serie brasiliana prodotta da Netflix, reboot di una web serie del 2011, che ha davvero piacevolmente colpito spettatori e critica.
3% è la prima serie Netflix prodotta in Brasile e una delle prime, di questa casa di produzione, in una lingua diversa dall’inglese. Proprio il portoghese brasiliano dà il primo impatto con la serie, dimostrandosi una lingua con una musicalità unica che spinge il pubblico a rifiutare qualsiasi doppiaggio per immergersi completamente nella serie attraverso il suo idioma. Quest’ultimo diviene, così, uno dei punti di forza dell’intero show, accompagnato inoltre da una soundtrack a forte carattere carioca che completa così un contesto che, andando avanti, darà una vera e propria caratteristica peculiare alla serie.
La storia a primo impatto non sembra molto originale, tutto è incentrato su un futuro distopico in cui l’umanità è divisa in due classi, una costituita dalla maggioranza delle persone e l’altra solo dal 3% dell’umanità. Quest’ultimi sono l’élite e vivono in un luogo chiamato Offshore, il cui accesso è permesso solo ai meritevoli e tali sono coloro che superano il Processo, ovvero una serie di prove, di vario genere, a cui accedono i ragazzi che hanno compiuto i vent’anni di età.
Questi giovani uomini e donne hanno una sola occasione per poter superare il Processo e approdare nell’élite, e nel caso di insuccesso saranno condannati per sempre a vivere nella parte del mondo in cui regnano povertà e indigenza. Anche se sembra una storia trita e ritrita, data la crescita di narrazioni con oggetto futuri distopici, 3% è la dimostrazione che spesso il modo di raccontare è più importante della storia in sé.
In primo piano da sinistra verso destra: Michel Gomez, Bianca Comparato, Rodolfo Valente, Rafael Lozano e Vaneza Oliveira.
Difatti, la serie tratta temi importanti con una profonda intelligenza, affronta concetti come la meritocrazia, l’equità, l’uguaglianza, la povertà senza scadere nel banale, ma anzi spingendo lo spettatore a prendere lui stesso una posizione, dato che l’intero show ruota intorno alla linea sottile tra giusto e sbagliato mai dicendo chiaramente cosa lo sia e cosa no.
Probabilmente, però, il concetto su cui la serie spinge di più è quello di divario, la cui presenza è sempre percepibile grazie sia ai dialoghi dei protagonisti delle due diverse classi, sia per la costruzione delle scene, che mettono in luce la distanza tra i due mondi. Ad esempio la città dei protagonisti (che ricorda qualsiasi città sudamericana) è immersa in un canyon di un territorio desolato in Amazzonia che spinge a credere che non si possa uscire senza doversi arrampicare. Sembra quasi una metafora del Processo, che si rivela una vera e propria scalata verso una boccata d’aria fresca, sensazione coadiuvata anche dalle scene che presentano la sede delle prove che appare asettica e claustrofobica, tanto grigia quanto spietata. Inoltre, la mistificazione del tanto agognato Offshore, porta ad immaginare questo luogo in un posto altissimo e irraggiungibile incrementando così quella sensazione che spinge lo spettatore a credere che l’intero contesto sia un pozzo profondo da cui risalire con tutte le proprie forze.
Senza approfondire troppo la storia rischiando di inciampare in spoiler –che sarebbero gravissimi per una serie piena di colpi di scena- bisogna dire che 3% ha l’ambizione di essere uno show di qualità, nel senso che oltre a offrire puro intrattenimento alla Hunger Gamestenta di coinvolgere il pubblico in riflessioni complesse che vertono su concetti che hanno una profonda anima dualista. Ad esempio, potrebbe spingere a ragionare sul valore e il significato che può assumere la meritocrazia all’interno di un sistema complesso come quello contemporaneo e quale sia la caratteristica che le dona valore, ossia se ciò si riscontra nei tipi di prove a cui siamo sottoposti oppure alle motivazioni che le sostengono.
Anche per i produttori dello show, il merito è uno dei concetti portanti della storia, punto di connessione con la nostra epoca, necessaria riflessione sul pericolo che si corre quando si esaspera un concetto. A proposito, anche uno dei produttori della serie Cesar Charlone, famoso direttore della fotografia del bellissimo City of God, ha sostenuto che:
“Fondamentalmente, la serie si interroga sulle dinamiche di una società nella quale vengono imposti costanti processi di selezione ai quali dobbiamo sottoporci tutti, che ci piaccia o meno.”
Tale impostazione concettuale porta con sé numerosi interrogativi filosofici che potranno solo fare bene allo sviluppo qualitativo della serie. Difatti, alla fine della visione della prima stagione, più che interrogarsi sulla storia, ci si arrovella sul dualismo equità/uguaglianza, chiedendosi quanto questi due concetti siano vicini tra di loro e quanto essi abbiano a che fare con la concezione di giustizia. Bisogna dire che è stata una piacevole sorpresa ritrovarsi alla fine della prima stagione con tali interrogativi nella testa e non solo con i colpi di scena e l’evoluzione della trama.
In conclusione, va detto che 3% è ben recitato e alcune performance attoriali riescono ad adombrare il difficile approfondimento della psicologia dei personaggi, reso arduo dall’ampio numero di essi. Tra i tanti spiccano sicuramente Joao Miguel, bravissimo nel creare un personaggio complesso anche se a volte l’interpretazione appare grottesca, e Bianca Comparato perfettamente a suo agio nei panni di una ragazza oscura e tormentata, a tratti ambigua. Inoltre vogliamo ricordare anche le performance di Rodolfo Valente (a nostro parere il miglior personaggio), Vaneza Oliveira, Mel Fronckowiak e Rafael Lozano.
Joao Miguel in una delle immagini promozionali della serie.
Pertanto, 3% si presenta con una prima stagione davvero affascinante grazie all’ampia sufficienza di tutti i fattori che fanno di uno show un grande show. Ciò è stato confermato dall’ottimo accoglimento da parte di critica e pubblico che ha portato Netflix e Boutique Filmes a confermare una seconda stagione, che probabilmente vedrà la luce per la seconda metà del 2017. Quindi, non mi resta di augurarvi una buona visione, sperando che i capitoli successivi siano all’altezza del primo.
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