Collateral Beauty esce nelle sale italiane il 4 gennaio 2017. In qualità di spettatore sono entrato in sala con un certo carico di aspettative e timori. Le prime procurate da un cast eccezionale, i secondi dovuti ad un trailer che lasciava immaginare una storia facilmente vittima del patetismo e dunque complessa da rendere al meglio.
La pellicola si apre con un godibile monologo di Will Smith e ammetto di essermi rilassato, perché sembrava che tutto promettesse bene. Smith interpreta Howard Inlet, dirigente pubblicitario sconvolto dalla morte della sua bambina, di soli sei anni. Howard corre per le strade di una New York natalizia inforcando la sua bicicletta, corre con gli occhi gonfi e una barba incolta per fare ritorno tutte le sere in un appartamento spoglio. La remissione patologica di ogni forma di attività produttiva comincia ad allarmare i tre soci dell’azienda (Norton, Winslet, Pena), nonché amici di lunga data di Howard. Si, perchè il dolore di uno rischia di far crollare la vita di tutti, in un effetto domino. Questo simbolismo viene rappresentato sullo schermo più volte, con troppa insistenza per risultare efficace quando Howard mette in fila migliaia di tasselli sulla propria scrivania, con precisione maniacale.
Un piano piuttosto fantasioso viene messo in atto dai tre soci quando scoprono che il loro depresso collega scrive lettere ad Amore, Tempo, Morte. Tre attori vengono chiamati ad interpretare queste tre astrazioni per incontrare il povero Howard. Nonostante questo fosse il perno narrativo della storia, i personaggi (interpretati da H. Mirren, K. Knightley e J. Latimore) non convincono nella loro prova attoriale. L’intera sinfonia umana della storia non incide e non lascia spazio ad un sentimento profondo nello spettatore, che si aspetta un cambio di prospettive che non arriva mai. David Frankel mette in scena un film melenso, pieno di disgrazie che colpiscono praticamente ogni protagonista della storia. L’unica sfumatura di ottimismo in questa escalation drammatica doveva essere appunto “la bellezza collaterale”, una frase buttata un paio di volte fra i dialoghi di una sceneggiatura pallida che oscilla ambigua fra dramma e commedia, di cui non ricordo nessuna frase che mi colpisca. Il finale poi, è un’ingenua confusione narrativa poco credibile, come se Christopher Nolan e Josè Saramago sbattessero la testa l’uno contro l’altro. Nonostante l’ottima prova attoriale di Will Smith, che si conferma un professionista del genere, la pellicola butta dentro tanta depressione che non viene controbilanciata adeguatamente dalla sceneggiatura.