Il cinema di Burton, oggetto di consumo cinematografico-iconico, si struttura e storicizza attraverso la creazione di un immaginario (archivio d’immagini) iper-scenografico e costumistico, ma soprattutto iper-disegnato e cartoonizzato. Immaginario che, con Miss Peregrine – la casa dei ragazzi speciali, sembra ridefinirsi e tagliare un traguardo irreversibile nel percorso post-2010 del regista statunitense. La massima spersonalizzazione postmoderna dunque, che si compone di ri-ri–elaborazioni e subordina gerarchicamente alla CGI ogni scelta registica. Della marca autenticamente burtoniana, scrittura per immagini identitaria e inconfondibile delle passate collaborazioni con Selick non resta che un’eco lontana. Il Burton attuale pare dunque dirigere un concerto di visioni di genere, mutuate da un immaginario collettivo e orchestrate in un concerto di prefissi iterativi: superamento non solo del moderno, ma anche del contemporaneo.
(Mr. Barron / Samuel L. Jackson, antagonista dei bambini speciali)
Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali è la trasposizione cinematografica di un recente best seller di narrativa fantascientifica, dal quale Burton sforna un astuto prodotto, vagamente somigliante ai pasticci che la sua Mrs Lovett/Bonham Carter cucinava infarcendoli di speziate e gustose carni altrui.
(una sequenza di Il labirinto del Fauno, 2006, di Guillermo del Toro)
In quest’ultimo lavoro, Burton procede sinteticamente, dall’analisi all’unità: dà vita a una creatura che (priva di una certa vitalità originaria) si nutre degli occhi altrui e delle altrui visioni in senso tanto diegetico, quanto strutturale.
(occhi altrui che nutrono i mostri senza volto nell’ultimo lavoro di Burton)
La sceneggiatura di Jane Goldman si snoda dell’omonimo romanzo di formazione adolescenziale di Ransom Riggs e ne fa pretesto (ma si sa che la pretestuosità del soggetto al fine-film è tutt’altro che biasimo, quanto dato di fatto – salvo rare eccezioni) per la costruzione di un trenino da luna-park fra piccoli orrori e svariate avventure harrypotteresche.
(il ritorno di Lord Voldemort nel film Harry Potter e il Calice di Fuoco, 2005, diretto da Mike Newell)
Il giovane Jacob, adolescente hipsterico ante litteram, turbato dalla morte del nonno-icona-Terrence Stamp (già in Big Eyes), intraprende su consiglio della sua psicologa, che si scoprirà minacciosa trasformista (nell’ornitologo Rupert Everett), un viaggio nel tempo e nello spazio per ritrovare una propria collocazione socio-identitaria. Fra il Galles e i soliti jazzati anni ’40, giunge alla casa dei bambini, alla cui direzione è furbescamente collocata una garanzia di botteghino come Eva Green, in qualità di Miss Peregrine. La casa è una sorta di centro d’accoglienza per ragazzi con peculiarità dove Jacob scoprirà le sue, peraltro ereditarie, doti visive.
(Eva Green/Miss Peregrine)
Così, fra scarpe steampunk e maschere antigas, Burton fornisce il perfetto catalogo per il costumismo-cosplayer e ci delizia o crocifigge con un varietà di citazioni soft-horror e, come di consueto, infligge all’horror la sua mitigazione cartoonistica standard; abbandona del tutto le rivisitazioni espressioniste degli esordi, salvo forse qualche elemento di luminismo nelle prime sequenze del film.
(le calzature steampunk di Emma Bloom/Ella Purnell)
Brani cult di Del Toro, Kubrick, Švankmajer si innestano su nucleo tematico quasi identico al terrificante corto di animazione The Sandman di Paul Berry (1992), nel quale l’uccello antropomorfo protagonista ha tutta l’aria di essere il malvagio contraltare di Miss Peregrine/Eva Green.
Allo stato attuale quello di Burton pare essere dunque un cinema-cane che, per individuare un sé che lo differenzi dagli invisibili Fauno-Dissennatori fatti della stessa sostanza di cui è fatto il green screen, deve nutrirsi delle parti molli dei cadaveri (passati, esauriti, fatti) trovati per strada. Il testo filmico afferma l’esistenza di un solo procedimento di salvezza, tanto per i buoni quanto per i cattivi: la vita inserita nella creatura feticizzata, morta, animata da un ventriloquismo esibito nei combattimenti fra scheletri sbarcati da un deppiano vascello fantasma, vita (corsiva e ri-corsiva) memore delle vecchie Maledizioni della prima luna.
(gli scheletri zombie-marionetta nella sequenza del Luna Park)
Del resto, il primo ad auto-feticizzarsi è lo stesso Burton, con un uso della CGI spinto al parossismo. Effetto speciale non illusorio ma costitutivo e informante nella riproduzione della copia della copia (..) delle bambole svankmajeriane, marionette inanimate e tuttavia mosse dalla mano che vi inserisce cuori e cervelletti scelti da uno scaffale.
(le marionette del giovane Enoch)
Miss peregrine – la casa dei ragazzi speciali rappresenta allora l’approdo del vascello immagin-ario (e il suo farsi fantasma) all’instabilità digitalizzata che supera la video-instabilità della traccia. Il digitale fantasmifica perchè non riconosce il valore tempo, lo inganna, lo plasma. La creature svankmajeriane (ossi di bambola, mostri giocattolo) trasportate negli universi verdi della computer grafica non si muovono più in stop motion, sono smaterializzate, pixelizzate, simulazione vettoriale di una finzione materiale-cinetica. Come ogni pixel compone e insieme esaurisce il valore fotografico del tempo, queste creature generano orrore non perturbante, perfezione a-rumoristica. Il tempo diegetico è capace di autocancellazione quotidiana, è dappertutto eppure è mai e in nessun luogo. Allora il viaggio è possibile, come è possibile la decostruzione e ricostruzione di un puzzle monocromo a tessere quadrate.
(l’orologio di Miss Peregrine/Eva Green)
Il tratto grafico Disney, che nel ‘29 animava la celeberrima Skeleton Dance sulle note della (acusticamente iconica) Silly simphony, diventa dunque vettoriale informante, non animazione (caso mai dis-animazione); compiutamente fa e disfa, senza tregua. Il supporto registra, ma la traccia è tanto inconsistente quanto ripetuta e ripetibile è la divertente e dimenticabile musica dello scontro fra scheletri e Vacui al Luna Park.
(Skeleton Dance, 1929, Walt Disney)
La stop motion dell’Alice di Švankmajer è il perturbante surrealista, discesa nell’incubo spaventoso in quanto amorfo, disfacimento di significati e insieme puro senso del cinema, riproduzione del pre-concettualizzato, dramma di oggetti marinettiano dove l’unico oggetto è, in fondo, Alice stessa. Passiva spettatrice nonostante il costante rimbalzo grande-piccolo: resta lo spettatore, l’Io proiettato che fruga i meandri del non-senso animato e trova così il senso dello spectare. Ma Burton piace proprio perché non è Švankmajer, perché non turba ma rasserena: il suo potere non è il perdere il senso, ma il trovare il senso nel non senso, l’etica nella dis-umanità dei mostri.
(Alice, 1988, Jan Švankmajer)
Se in un altro dei generi horror-ibridazione, il cyberpunk nipponico, l’uomo si fa ferraglia-mostro, dunque nel suo generarsi innaturalmente si auto-scioglie dalla legge naturale e vive (scelta irreversibile) fuori dall’etica e dalla società, al contrario le ibridazioni burtoniane attuano un processo opposto, e l’opposizione è analoga in rapporto alle forme cinematografiche. Burton si serve dell’horror per uscire dall’horror stesso nel suo impatto più immediato, quello sullo spettatore (nel suo non far paura). Edward Mani di Forbice è Freddy Krueger che compie una scelta etica contro la sua a-natura di mostro, accetta una legge alla quale non sarebbe soggetto, da squartatore a giardiniere-parrucchiere.
Il biasimo mosso a Miss Peregrine – la casa dei ragazzi speciali risulta essere allora un biasimo tutto d’immagine. Ma proprio per questo si tratta di biasimo sintetico, strutturale, perché se non si separa mai il contenuto dalla forma, non lo si può fare a maggior ragione di fronte a un’appropriazione tutta postmoderna o addirittura post-contemporanea, proiettata essa stessa nella dimensione degli anelli temporali, dove i generi diventano stickers di cui servirsi senza arrischiarsi su forme visive nuove dunque autentiche perchè sviluppatesi con lo sviluppo di chi le genera. La ricopiatura dei sé stilistici conduce alla perdita di ogni autenticità dietro la maschera dell’autorappresentazione (diversamente dall’indivuazione), al punto che se nulla più appartiene di tutto ci si appropria.
(la sequenza del braccio-ascia che sfonda la porta: il cattivo che fa capolino dal buco )
(l’iconico “Here’s Jhonny!” di Jack Nicholson in The Shining)
La percezione che rinnovarsi e dunque ritrovarsi nella propria integrità stilistica non serva, tante sono le forme che esistono, tante e tutti ne sono non-proprietari (comunismo di pigrizia immaginativa) risulta fatale all’invenzione. L’adeguamento alla CGI sembra aver livellato l’inventio alla sola riproduzione e riproducibilità. Dove ogni forma è riproducibile, non se ne inventano di nuove e ci si serve di quelle trite.
(il giardino automimetico della casa dei bambini)
In un paradosso di fedeltà a se stessi, nel non-rischio, si finisce così per esaurirsi, e dunque tradirsi mutuando meccanismi produttivi altrui. La tessitura cinematografica di Burton pare allora tanto ben colorata quanto sfibrata nei modi di produzione di senso, piegata a un citazionismo tarantiniano nell’epoca del citazionismo universale. Un Burton tarantinizzato insomma, cameo di se stesso sulla propria giostra, serenamente votato alla sintesi-Frankenstein, assemblaggio di pezzi iconici ben cuciti e tuttavia privi di un sé, eternamente plurali. Così se Miss Peregrine è bello, lo è della bellezza effimera di una composizione ottenibile attraverso le più modaiole app OX: una galassia in cui fluttuano insieme delfini e capitelli corinzi.