Sacro GRA è un documentario privo di tutte le “chincaglierie del reportage sociale” (De Bonis), che scopre la meraviglia in frammenti di vite. Un racconto fatto di cenni, uno sguardo che usa tutto il potere del cinema per infondere sui protagonisti un magnetismo orbitante. Così finchè è guardato, ogni personaggio è una specie di pianeta-Roma e intorno a questo pianeta noi giriamo, ci facciamo anello. Di ogni minuscola Roma diventiamo il GRA.
Servendosi di uno sguardo molto più filmico che documentaristico, Rosi ha la capacità quasi magica di creare poesia della realtà, senza infettarla di pose, senza intaccarne l’autenticità. La realtà fluisce libera, anche nei vezzi o negli impercettibili imbarazzi dell’uomo comune di fronte a una macchina da presa che non dirige e non domanda, limitandosi a esercitare il suo potere di occhio muto. La camera è una lente fantascientifica di carpenteriana memoria che svela una realtà nascosta, ma che (al contrario degli occhiali di Essi Vivono) non svela la falsificazione, ma l’autenticità. Spazza via la cortina dell’anonimato e mostra una sconvolgente e molteplice umanità, tanti piccoli regni fortuitamente periferici, lontani dal centro, ma capaci di farsi a propria volta centri e centripeti. Mulinelli acquatici di dettagli che ci risucchiano per poi lasciarci sbigottiti e insieme estasiati a fissare gli spazi vuoti del GRA. Ogni cosa notata, ogni dettaglio di qualche io-perduto e ritrovato trafigge senza affettazione nè retorica, è un regalo.
Uno sguardo fatto di variazioni, campi lunghissimi e profondi sulla periferia, i cieli (e le erbacce contro i cieli), le brutte chiese contemporanee, le figure minuscole perse nell’indifferenza dei pilastri; le costruzioni di cemento messe in quadri inclinati, come se fossimo lì sotto, in piedi sulla strada con la testa piegata da un lato e lo sguardo verso l’alto, con la mano a proteggerci gli occhi dal controluce. Quel controluce che a volte arriva fortissimo a sgranare una fotografia impeccabile, e brucia tutto e tutti (i volti contro il cielo tutto bianco che diventano poltiglia di voci, bocche e occhi persi nella sequenza dell’apparizione della Madonna). Ma soprattutto ci sono il tramonto, la penombra, il buio e le vite accese nelle finestre o nelle luci al neon di un camioncino che vende panini ai transessuali: lo striscione giallo-rosso con scritto “Prodotti Tipici” pende, mezzo staccato e il venditore esce dal banco e lo riattacca, con un amore insieme incomprensibile e indispensabile. C’è un costante senso di smarrita bellezza e di meraviglia (nella cubista che dice “non mi metto il rossetto rosso perché me fa la faccia da mignotta”, nel padre che parla con la figlia di una melanzana che puzza di muffa, nelle prostitute vecchie dentro il camper ammaccato che mangiano prosciutto e mozzarella). I sorrisi non sono mai di derisione.
E poi c’è il botanico impegnato nella strenua lotta contro il punteruolo rosso, che ausculta ogni palma con medica perizia, ne scava il tronco e ne indaga il suono, per scovare il grido delle larve, un feroce e insopportabile grido d’assalto: “Il punteruolo rosso, il vero nemico della palma. Hanno una struttura sociale organizzatissima. Alcuni individui particolarmente dotati sentono l’odore della preda a grande distanza e richiamano i loro consimili per organizzare delle orge. Si avventano quindi sull’individuo e cominciano, dopo aver depositato delle uova, a colonizzarlo. Se ne cibano fino alla distruzione e non sono interessati ad altri individui se non quando quell’essere è stato completamente distrutto, e il ciclo ricomincia. Ed è grave per il mondo delle palme e simbolicamente anche per l’uomo. Perchè la palma ha proprio la forma.. dell’anima dell’uomo.”