Sopra ogni grande capo c’è il capo del grande capo, il grande C. Nel capitalismo le logiche sono quelle di una piramide con la punta nascosta tra le nuvole e la giustificazione per le pedine mangiate sta in queste stesse logiche, non nelle persone.
Sopra ogni grande capo c’è il capo del grande capo, il grande C. Nel capitalismo le logiche sono quelle di una piramide con la punta nascosta tra le nuvole e la giustificazione per le pedine mangiate sta in queste stesse logiche, non nelle persone.
In questo film (che fa molto ridere) Von Trier resta fedele a se stesso, compie uno sforzo umoristico efficacemente caustico, a partire dalla scelta del mezzo narrativo: usa l’automavision che a volte taglia le teste (secondo il meccanismo gelido e arbitrario con cui ogni azienda gestisce le risorse umane impiegatizie). La causalità si nasconde nella casualità, nelle ragioni superiori, che trascendono le persone.
Ma come in ogni sistema i responsabili ci sono, e più è grande il loro potere decisionale, più è grande la loro capacità di dissimularsi nell’Olimpo dei piani alti.
Von Trier ci svela che questo Olimpo è solo un racconto mitologico, e che il vero grande capo perde tutto il fascino dell’imprenditore spregiudicato e brillante recitando la parte del tirapiedi, pur di non assumersi le sue responsabilità di cattivo. Il grande capo è l’orsetto gommoso e colorato che nasconde il tritacarne, è inoffensivo nell’aspetto e nella comunicazione gestuale e verbale fatta di abbracci e paroline.
Paga un attore spiantato che interpreta maldestramente la sua parte e tratta, in sua vece, con un irascibile imprenditore islandese per la cessione dell’azienda. È proprio questo attore che deve mandare tutti a casa, garantendo al vero grande capo la botte piena e la moglie ubriaca. Alla fine l’orsacchiottone cambia idea, ma è troppo tardi e il contrappasso von-trieriano lascia che l’ingranaggio capitalistico lo stritoli.
Ed è qui che, in effetti, emerge tutto il genio di Von Trier, in un finale purificatore come Melancholia, vendicativo come Dogville e assurdo quasi come Antichrist, ma veicolato nei termini dell’ironia più astuta: non attraverso il linguaggio verbale, ma con un netto stacco di montaggio e un cambio di scena sulla firma del finto capo e dell’islandese irascibile. E su questa chiusura è inevitabile immaginarsi la faccia del buon Lars che si dissolve lasciando solo un bel sorriso da Stregatto.