Il trequel di Ron Howard che non convince. Per lui un posto nel Purgatorio.
Riprendendo il personaggio di Robert Langdon per la terza volta, è obbligatorio far sudare incubi a Tom Hanks: all’inizio di “Inferno”, si sveglia sudato, sanguinante e in preda a flashback riguardo una sorta di battaglia medievale. Perché è qua, in questo letto, con questi tubi attaccati? Guardando fuori dalla finestra dell’ospedale, capisce che è la città di Firenze, ma non ricorda come ci è arrivato.
Improvvisamente, Felicity Jones è in piedi davanti a lui dicendogli che è la Dr.ssa Sienna Brooks e che è una sua grande fan fin da quando era una bambina. Gli dice che non ricorda le cose poiché ha una la lieve amnesia retrograda dovuta ad una ferita alla testa causata probabilmente da un colpo di pistola. Non si ha il tempo di comprendere cosa stia accadendo e il motivo delle visioni di Tom Hank’s che siamo interrotti bruscamente dall’irruzione di una carabiniera che li vuole catturare sparando a chiunque le blocchi la strada. La dottoressa Brooks e il professore Langdon iniziano la fuga, la quale rappresenterà una sorta di delicato percorso turistico che li condurrà per il resto di questo film.
Nell’appartamento della Dr.ssa Brooks acquisiamo che Langdon è in possesso di una capsula segreta con apertura a riconoscimento d’impronta digitale dentro la quale c’è una “Torcia di Faraday” che proietta un’immagine con la mappa dell’Inferno di Botticelli. Questa immagine della visione di Dante è stata modificata, qualche lettera piazzata su gambe e teste di alcuni personaggi. Che cosa vuol dire?
“Un anagramma” conclude la dottoressa. È chiaro che questi due pezzi del puzzle vadano insieme.
Presto però torna in gioco la carabiniera, questa volta con una task force armata dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Incontriamo dunque alcuni volti europei interessanti come Omar Sy (ispettore Bouchard) e Sidse Babette Knudsen (Elizabeth Sinskey), la quale può o non può avere una precedente relazione con Langdon.
Una doccia veloce e Langdon è di nuovo in fuga per il Giardino di Boboli inseguito da un drone della OMS (si, l’OMS ha sia fucili che droni). Una volta al “sicuro” Sienna fa sentire a Langdon una registrazione sul proprio cellulare su ciò che brontolava il professore la sera che era arrivato in ospedale: “Vasari, Vasari”. Un chiaro riferimento all’artista che ha dipinto un affresco in Palazzo Vecchio.
Da qui continua la fuga turistica per Firenze, Venezia e Istanbul il tutto contornato da sparatorie, pazzi suicidi e possibili scatenamenti di epidemie.
“Inferno” però non è solo un riferimento a Dante: si scopre che è anche il nome di un virus assassino creato da un pazzo miliardario tecnologico chiamato Bernard Zobrist (interpretato da Ben Foster), il quale è in grado di spazzare via miliardi di persone “salvando” così il pianeta dalla sovrappopolazione.
In tutto ciò c’è tempo per Irrfan Khan di divertirsi un po’ con il suo ombroso personaggio Provost, che ha perlopiù il compito di spiegare e colmare le molte lacune createsi durante lo svolgimento della trama.
Dirigendo un adattamento di Dan Brown per la terza volta (dopo “Il codice Da Vinci” e “Angeli e Demoni”), Ron Howard consente tutti i tipi di congegni alla sceneggiatura di David Koepp, come se fare affidamento costantemente alla “Divina Commedia” di Dante facesse pensare alla gente di star guardando una cosa profonda e da intellettuale.
“Inferno” ha poco da raccomandare: non fa paura, non è divertente ed è privo di tensione. Il film è bloccato in un limbo cinematografico, e se alcuni critici di cinema risiedono nell’ottavo cerchio dell’inferno, “Inferno” di Ron Howard deve restare nel Purgatorio.
Voto: 6.5
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