Un film sui maschi prima che sugli uomini, dove la presentazione misogina del personaggio femminile diventa un pretesto per svelare la mediocrità (e il naufragio) dei valori della borghesia intellettuale nel post ’68. Peckinpah è un regista famoso per il genere western che con Cane di Paglia vira nella direzione del dramma; tuttavia, a ben guardare, resta l’impronta fortemente maschile del duello, la lotta per il territorio dove c’è spazio per un solo vincitore. Su queste basi Peckinpah costruisce qualcosa di unico e inclassificabile, un thriller che viaggia sul filo della tensione drammatica, per arrivare a un finale quasi horrorifico, ma dove l’orrore non è tanto visivo (ben poco sangue), quanto invece concentrato nelle fronti imperlate di sudore e nelle pupille dilatate dei personaggi, bestie in trappola costrette (da se stesse) in un’assurda e claustrofobica guerriglia domestica.
 E proprio in quest’ultima estenuante mezz’ora il “cane di paglia” David Sumner, professorino americano che (fedele al mito metropolitano dell’ “altrove” idilliaco) s’illude di trovare in Cornovaglia un’oasi contemplativa per dedicarsi alla matematica, si trasforma finalmente in un dobermann e, con la perdita della sua diplomatica vigliaccheria, riesce a confrontarsi con gli altri maschi, cane contro cane. David compie così un percorso di adattamento alla natura ostile, dove la cultura e la matematica non sono elementi che valgono la scalata sociale (garanzie di sicurezza della middle class intellettuale), ma debolezze che distolgono l’attenzione dal possesso. Proprio l’idea giuridica di possesso diventa infatti il centro ideologico del film: non siamo nell’America del capitalismo proprietario, che fonda ogni liberalismo sulla vincolatività giuridica della proprietà .
Siamo nelle rigide campagne inglesi vergini di liberalismo, di capitalismo ma soprattutto vergini di diritto positivo. In poche parole, la proprietà non conta un bel niente senza possesso, contano il qui e ora, la situazione di fatto (sulla casa e sulla donna, entrambe troppo aperte all’esterno per non essere violate dalla natura selvaggia). Due realtà che si infrangono l’una sull’altra segnando la vittoria della natura, e la natura è ostilità : caos, conflitto e morte. Solo quando la trappola per lepri cessa di essere oggetto d’arredo e ritorna strumento (appunto) di morte la casa di David è salva: e in effetti proprio con l’uccisione di Charlie, la mogliettina Amy riprende le parti del marito e spara contro il nemico l’ultimo colpo fatale. Perchè Charlie è il vero opposto di David: nella sequenza dello stupro Peckinpah si serve del montaggio alternato e ci mostra la sofferenza di Amy attraverso rapidi flashback in cui s’immagina il marito; a questi flashback si aggiungono flash spaziali che inquadrano David in quel preciso istante, solo e sperduto nella campagna, a raccogliere con civilizzata e inutile pietà il cadavere del fagiano a cui ha sparato. Ecco che, oltre questa sovrapposizione d’immagini, s’impone la prepotenza del qui e ora con le mani di Amy che accarezzano il collo di Charlie e cercano le sue labbra: lo stupro si dimostra per quello che è stato, un rapporto sessuale violento ma desiderato, che si fa davvero stupro solo con l’arrivo del terzo. Ma il terzo è figura essenziale perchè afferma che (in quel mondo) la sola alternativa possibile al mondo di David è la natura violenta dove sesso e stupro sono indistinguibili: sopraffazione, volontà predatoria, abiti strappati, impulso anonimo e insieme collettivo (mentre David prima di fare l’amore si sfila l’orologio, mette la sveglia, chiude la scatolina degli scacchi portatili, con cui Amy lo aspetta sotto le coperte).
Peckinpah affronta dunque questo scontro fra realtà , come supremo dramma che se pure sul finale non ha esito tragico per i protagonisti, si rivela a tutti gli effetti tragedia dell’illusione americana (di civiltà , ma anche di civilizzazione e quindi di superiorità ). La regia raggiunge livelli straordinari, negli indugi sui seni di Amy sfacciatamente visibili attraverso il maglione, nei continui occhiolini tra finestre troppo aperte; ma soprattutto nelle inclinazioni e nelle angolazioni, negli sguardi di sbieco attraverso le stanze della casa dove il voyeurismo del fuori è favorevolmente accolto dall’esibizionismo del dentro. Finchè, sul finale i quadri sempre più inclinati trasformano David nel capitano impazzito di una nave che cola a picco: la casa diventa espressionista, luogo distorto, piegato, instabile, dove l’andatura traballante dei personaggi fa presagire il naufragio fino all’ultimo decisivo istante di “salvezza”. E proprio l’inquadramento ferino del concetto di salvezza ci spiega il titolo, tratto dal Tao Te Ching: “Il Cielo e la Terra non usano carità , tengono le diecimila creature per cani di paglia. Il santo non usa carità , tiene i cento cognomi per cani di paglia.”