L’odore della notte è un ritratto di Roma nei primi anni ottanta, la Roma delle brigate rosse, della democrazia cristiana e del compromesso storico. Allo stesso tempo, attraverso il sezionamento di questo cuore politico e sociale pulsante, è anche un ritratto delle degenerazioni funzionali dell’intero organismo-Italia (politica, etica, società).
Una sorta di Taxi driver degli anni di piombo, con lo stesso incedere scandito dai monologhi interiori di Remo Guerra. Ma il personaggio di Remo non è tanto un’imitazione di Travis Bickle, quanto una sua ricontestualizzazione sulla base della storia contemporanea italiana. La differenza è comprensibile se si pensa alla scena “Ma dici a me?” che torna in un film degli stessi anni, La Haine di Kassovitz, con un giovane Cassel di fronte allo specchio, che mima i rabbiosi gesti di De Niro. Mentre il ragazzo della banlieu parigina imita l’attore, come Sheen in Badlans di Malick imita James Dean o Belmondo in A bout de souffle imita Bogart, in questo film Caligari va oltre l’omaggio all’attore e al regista: Remo Guerra non è imitazione dell’attore che recita la parte, ma immedesimazione adulta nella solitudine del personaggio, che si ripropone in un contesto diverso, e tuttavia a partire da un’analogia fondamentale: Remo e Travis vengono dal “corpo militare”, e ne sono le sintomatiche e perfette degenerazioni. L’odore della notte è un raro esempio di come la citazione cinematografica possa diventare elemento costruttivo, sintesi di cinema, e non frammento isolato o esercizio stilistico. E più che mai, in questo caso, la citazione è funzionale a un’attualizzazione spaventosamente acuta di quel disagio esistenziale e insieme (indissolubilmente) sociale che sta nei personaggi di Scorsese (Taxi driver, ma non solo).
Caligari scardina i valori sociali a partire dall’interno (dall’interno della società, ma anche) del testo filmico, dove il personaggio non si identifica più nella sua funzione: il modello tradizionale è quello degli “attanti” dove il Bene e il Male sono messi in gioco l’uno contro l’altro, ma mai l’uno dentro l’altro. Così nella sua funzione originaria di poliziotto, Remo Guerra è la prima falla nel sistema sociale, capace di sovvertire appunto questo modello: nel poliziesco americano il poliziotto è l’eroe buono, oppure è corrotto quindi spinto al comportamento patologico da una motivazione concreta, il denaro. Remo, di notte, diventa il capo di una banda di rapinatori di borgata, tuttavia per lui il denaro non è il fine, ma il mezzo. In questo l’influenza è forse Diario di un ladro di Bresson: la rapina diventa vizio e dipendenza, è essa stessa il fine, insieme a “quel sudore malato che ti resta addosso per tutto il tempo, e se ne va solo quando hai finito il colpo”. E come in ogni dipendenza, non c’è scopo da raggiungere che non sia il progressivo superamento del limite. Fermarsi è impossibile, finchè non si è colti con le mani nel sacco. Ma è con l’arresto che si compie la vera missione dell’eroe-Remo (un Batman antiborghese che nasconde la propria vera identità dietro al lavoro “da cartellino”): la giustizia è scossa e costretta a intervenire, Roma viene svegliata dalla scelta di compiere la rapina più estrema, non a caso nella villa di un senatore democristiano. La forza dell’eroe degenerato Remo sta nel disinteresse per gli scopi, che accomunano invece gli altri componenti della banda. Questo disinteresse, che lo rende solo e più che mai simile a Bickle, è il sintomo più grave del distacco dal ruolo di poliziotto, che disprezza di più in assoluto (e più in assoluto gli appartiene). Poliziotto di stanza a Torino, annoiato e affamato (il più grande disprezzo per ciò che si fa è la noia) è messo a guardia della Sindone. Un guardiano della giustizia degradato a sorvegliare una reliquia, un segno vuoto. Così se ne va al bar, a farsi un panino. Se la vera Sindone gli costa la prima condanna a 4 mesi di galera per insubordinazione, in una circolarità paurosamente karmica (la storia del giocattolo maledetto di cui è impossibile liberarsi), la Sindone ritorna, presagio e beffa insieme, nell’ultimo colpo nella villa del senatore democristiano, tra le pagine di un libro che Remo sfoglia per caso. La sequenza, inevitabilmente, si conclude con l’arresto (bressoniano) dei ladri. Ma la Sindone non è soltanto presagio ed elemento filmico, è anche simbolo cattolico in una casa borghese e democristiana, è reliquia riprodotta in un “libro da tavolino”, è lettera morta. La critica è spietata, la disillusione è totale. Sono gli anni del compromesso storico, delle brigate rosse, ma se si guarda bene, i sommovimenti dell’intestino politico, proprio in questi anni, non sono che il sintomo della sua normale funzione vitale. Insomma, non c’è niente di nuovo nell’illusione democristiana e qui la riflessione è attualissima. La Roma bene è quella della borghesia a cena con i cardinali, che conserva nel cassetto di un mobile antico i soldi del partito, dentro una valigetta (il metodo di scambio par excellence di ogni forma corruttiva o collusiva). Un livello di cinema altissimo è raggiunto quando il senatore prova a confrontarsi coi rapinatori sul piano propriamente politico: “Voi fate questo perché non avete lavoro, ma io voglio dare un lavoro a quelli come voi”. In poche battute emergono un’incapacità di analisi e un approccio semplicistico (e distaccato) ormai irreparabili. Perché il disagio dei rapinatori non è genericamente sociale, ma esistenziale (oltre che essenziale). Si pensi al personaggio del Rozzo: per lui quella vita è una vocazione, un vero e proprio lavoro, che lo identifica e crea le sue condizioni di esistenza, è il suo stile di vita, come per il padre è impossibile smettere di martellare i motori nell’officina. Ma dopo il tentativo di dialogo “politico” con l’opposto estremo, con la voce del disagio (quindi forse con la visione semplificata dei “comunisti”), dopo una rapida constatazione di inefficienza, ecco che l’illusione è definitivamente spezzata dagli stessi suoi fautori e promotori: “Te lo trovo io un lavoro”. Una battuta rappresentativa della mentalità clientelare (tutti i commensali sequestrati si affannano a dire “Ma sì, ti trova un posto di quelli dove non devi fare niente, solo timbrare il cartellino e a fine mese ritirare lo stipendio”), una mentalità patologica eppure incontestabile, accettata.
La lucidità con cui Caligari ritrae un’intera società in poche semplici battute è disarmante. In questo senso i rapinatori di borgata sono prima di tutto degli esploratori e in secondo luogo guide spirituali alla nostra rivelazione. Ci conducono con loro a squarciare il velo delle pellicce e dei Rolex, ci fanno vedere tutto e capire tutto. Ma se ognuno di questi delinquenti di borgata ha uno scopo (dal ricettatore che si fa la villetta a Roberto che vuole comprare il bar), Remo è l’unico che può condurre come capo la ricerca e lo svelamento, lui che del ceto medio impiegatizio è il simbolo più rappresentativo e controverso (specie negli anni del racconto). Ma questo poliziotto che contiene in sé la degenerazione del mestiere (del ruolo) finisce per rivelarsi il solo elemento funzionante di un sistema impigrito, ingenuo e inconsapevole, perché è l’unico che dubita, che non trova comodità e significato nel lavoro da cartellino timbrato (se puoi non fare niente, significa di fatto che la tua presenza è inutile). Remo è dipendente dalla rapina perché è in cerca di un senso e soprattutto di un’identità che lo faccia esistere (le fototessere con i travestimenti, che getta poi rabbiosamente nella borsa). Vengono meno così le analogie possibili con i drughi di Arancia meccanica o (se prendiamo un esempio recente e più che mai europeo) con i protagonisti del film Luton del greco Kostanatos e dalle scorribande notturne di ultraviolenza gratuita. Qui la rapina non è una violenza come un’altra, ma è l’attentato mirato al valore principale della classe dominante, il denaro. Per Remo non conta essere ricco, mettere da parte, costruire (e in questo è diverso da tutti gli altri della banda). Per lui è importante distruggere, minare quello specifico valore: non ci sono mai stupri, perché la violazione necessaria e sufficiente è quella della casa e del patrimonio, lo svelamento dei vizi privati di contro alle “pubbliche virtù”. Lo scopo è raggiunto quando il borghese è umiliato, scoperto e messo in ginocchio, privato dell’ “avere” senza il quale non esiste. Con la sua consueta (sofferta e partecipata) ironia, Caligari delinea personaggi con i quali si finisce per empatizzare, e qui sta il massimo omaggio a Scorsese, nella magistrale capacità di creare eroi dannati da una quotidianità inutile, ma che risultano sempre migliori del contesto che cerca di inghiottirli. E non facendosi inghiottire finiscono per essere risputati, indigeriti e tuttavia appunto eroi, nella loro onesta ricerca di senso. Soli e proprio in quanto soli, individui, non conformati all’ipocrisia generalizzante della politica e della mentalità di quegli (e di questi) anni.