Kotoko o la poesia di Tsukamoto – Recensione

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Kotoko è poesia che nasce dalla sofferenza, quella filmica della protagonista e quella vera dell’interprete e co-autrice Coco (popstar giapponese), che porta il suo dramma personale e lo offre al regista. Tsukamoto entra in scena al suo fianco nei panni dello scrittore Tanaka, che vorrebbe smettere di scrivere e scegliere come unico mestiere quello di salvarla dall’autolesionismo e dalla follia.

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Se in Tetsuo il regista accompagnava il protagonista per i tunnel della metro, in una forsennata fuga dal mostro (e dal fantasma del senso di colpa), con Kotoko l’epidemia della meccanizzazione si trasforma in terrore autoriferito (dunque fuga da sé). Il tessuto domestico è sfasciato da uno sguardo espressionista, fatto di scatti e steady cam (consueto montaggio ipercinetico e violento); frequenti e marcatissimi contre plongèe inquadrano la mezza figura di Coco-Kotoko che sorregge il fagotto del figlio e si staglia contro un cielo limpido, accecante – il volto smarrito.

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Gli incubi del suo televisore si materializzano concreti, anonimi killer armati di mitra che uccidono il figlio, minaccia massificata e virtuale, senza volto e senza scopo.

Kotoko è, in sostanza, un film costruito sul costante rinvio extra-filmico, dove l’autoreferenza e il demone della modernità si fondono nella definizione di un cinema neo-espressionista nipponico che, al contrario di quello tedesco di Caligari o Murnau non è intra nè post-bellico, ma pre-bellico e pre-ecatombe.

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Kotoko è il dramma dell’uomo soffocato dal terrore di un mondo nemico, dove l’ibrido uomo-macchina si fa macchina completa e di pura carne, dunque invisibile nella sua deformazione: la piaga purulenta del feticista in Tetsuo (con inarrivabile coerenza stilistica interpretato dallo stesso Tsukamoto) si è del tutto richiusa, ha assorbito il proprio tempo, lasciando un’ automa-bambina controsole che ci dà le spalle, mentre danza sulla spiaggia.

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Le spiagge di Tsukamoto, come quella di Vital, sono il non-luogo, il purgatorio della beata neutralità, ma soprattutto Natura (illusoriamente) intatta.

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La bambina dell’inizio non è che embrione metropolitano, germe-robot rivestito di una scomoda tuta epidermica. Kotoko-Coco adulta squarcia quella tuta: il sangue che sgorga dalle ferite autoinflitte ha l’odore e la consistenza della vita, prova inconfutabile di un’umanità-chimerica (nel Giappone dei palazzi alti, delle periferie, della selettività tassativa, degli uomini brevettati).

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La spiaggia ritorna quando Kotoko, madre degenere colpevole (su tutto) di un eccesso di realismo, sembra aver ritrovato l’equilibrio nel legame sentimentale con lo scrittore Tanaka-Tsukamoto. Torna dal figlio, che nel frattempo è stato affidato alla sorella, nel limbo della natura insulare. La sabbia bianca e il mare, transitoria illusione di una pace impossibile ad ogni creatura contaminata dall’oggi.

Così, nello spazio dell’idillio, Kotoko si fa scerdotessa del reale e ci svela in un sistema cinematograficamente asiatico di contrappesi delicati (origami, fili di lucine) l’amore-dolore ovvero la compulsiva necessità di aprire Tanaka, sentire il sapore del suo sangue e squarciarne la carne. La sua deformazione fisica è l’elemento interno corrispondente alla deformazione percettiva (di un film espresso appunto in soggettiva).

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Se Tanaka-Tsukamoto si (libera e) deforma, lo fa a partire dal rapporto col cinema. Si presta alla de-costruzione body-orrorifica, allo stesso modo croenenberghiana e tsukamotiana, in quanto cinema fatto di deformazioni del dentro (della psiche malata) e del fuori (esterno malato che contamina la psiche, si fa malattia psicosomatica e poi tratto fisico – il fantomatico blob metallico di Tetsuo).

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Tanaka-Tsukamoto, Prometeo volontario immolato sull’altare del cinema, maschera di sangue che guarisce solo per essere nuovamente martoriata, è pura autoreferenza, auto-disfacimento e auto-indagine.

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L’autocompiacimento si fa strumento lirico. Così, il libro intitolato Bullet Ballet (come il film del ’98) permette di superare l’uso di sé che sul sé si appisola, come il neonato Gaspar in LOVE di Gaspar Noè (regista che sul sé struttura il proprio cinema), e raggiungere un travagliato lirismo, compassione nell’accezione etimologica di sanguinare per la piaga dell’altro.

Paragone azzardato forse quello col regista francese, tuttavia utile a mettere in luce quanto questo Tsukamoto sia distante dai Guido Anselmi felliniani, ammoniti dal buon Carini con la massima di Stendhal sull’Io solitario che gira intorno a se stesso e si nutre soltanto di sé, che finisce strozzato da un gran pianto o da un gran riso. In questo caso è infatti assente l’onanismo di chi si serve della citazione sul sé per racchiudere nel sé l’intero senso del proprio cinema. La filmografia di Tsukamoto appare, con Kotoko, freccia bidirezionale che dal regista conduce al mondo e dal mondo al regista, mentre – ormai annegati nel paragone non si può che cercarne una soluzione se non apologetica, almeno il più possibile onesta – il cinema di Gaspar Noè è, più verosimilmente, raffigurabile come una circonferenza dal perimetro privo di soluzioni di continuità (o forse tunnel-linea geometrica, dunque senza uscita né entrata..).

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Tsukamoto si fa allora proiettile-sonda (bullet), entra in Coco-cantante e su di lei costruisce Kotoko.

Spesso Tsukamoto fruga nei suoi protagonisti, con trame e titoli che trasudano fisicità (Tokio Fist, Vital…): come in Vital lo squarcio nel corpo inerte è indagine e poi catarsi, possibilità di richiudere e purificarsi dal senso di colpa che impedisce l’addio, in questo film il braccio del regista affonda nella psiche di Coco-Kotoko, mentre lei lo rende di nuovo feticista, sadomasochista – passivo e dunque – disonesto, perché le sevizie alle quali si sottopone hanno il solo scopo di convincere Kotoko che l’uomo esiste, che la realtà non è la televisione (e che la televisione non è l’uomo).

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Ai plongèe su Coco dentro l’appartamento (dove regna un disordine semanticamente zulawskiano), fanno da contraltare vertiginosi i contre plongèe all’aperto: in cima al palazzo dove la fuga (che è insieme forsennato inseguimento di se stessa) si arresta, si consumano istanti di terrificante silenzio, dominati dalla ricerca del punto di instabilità. Non avere equilibrio costituisce un elemento di debolezza, segnale di mancanza di stabilità del corpo che viene associato a una mancanza di stabilità della mente, una sorta di segnale d’allarme che il corpo lancia alla psiche. Ritorna il concetto dell’attrazione/repulsione per qualche cosa che fa paura. Si pensi al fatto che la maggior parte dei giochi infantili si basa sul piacere di essere lanciati nel vuoto e di ricadere (tra braccia “sicure”) (Focus, su Felix Baumgartner).

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Kotoko, madre degenere di un fagotto inerme, in bilico tra la vita (non-vita meccanica) e la morte. Nel caos di fuochi registici perduti e steady cam, è prosciugato ogni reale che non sia la rappresentazione. Il concetto shopenhaueriano resta dunque solo riferimento, inconfutabile perché un reale più reale di ciò che si vede non c’è: alla verità corrisponde la pura percezione filmica del punto di vista, quello della madre degenere che più volte uccide il piccolo D’jaroo, consegnandolo all’abbraccio del vuoto. Allo stesso modo, più volte lo resuscita, con stacchi di (registico) ritorno alla lucidità (ma lucidità valida solo istantaneamente, perché il confine della rappresentazione resta invalicabile) – niente sembra essere accaduto.

Kotoko è Coco, madre – artista incapace di gestire la propria creatura – la musica. Alla gestione e all’ammaestramento di sé, del talento artistico, del divismo, corrisponde l’orlo del baratro. Il figlio è il ritmo impossibile da mantenere a causa della sequenza concatenata di profezie che si autoavverano nel disturbo ansiogeno, ma anche in ogni circostanza esistenziale di forte responsabilità, dove il seme del dubbio (se si è o meno adeguati a una missione che pare averci scelto come oggetti d’azione passivi) si muta rapidamente in seme della follia. È il dubbio dell’uomo, dell’eroe romantico corroso dalla ragione, dunque inadatto all’azione, nell’epoca del tracollo del Romanticismo.

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L’uomo ha cessato da un pezzo di essere il minuscolo monaco in riva al mare delle tele di Friedrich: è l’uomo-macchina, che ha metabolizzato gli impianti metallici del feticista, il non-uomo, l’automa, la ferraglia rantolante mutata finalmente nel robot epidermico del ventunesimo secolo. Non esiste più da secoli l’eroismo del dubbio della ragione, perché la ragione è meccanica, e Kotoko è la macchina guasta che s’interroga sulla sua adeguatezza al vivere. Il suo guasto consiste nel realizzare la non completa automaticità, il potere di lanciare il proprio figlio nel vuoto, il potere di cantare o di tacere per sempre.

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Alla fine la pioggia di Tsukamoto arriva anche qui: l’acqua e la danza non nutrono, ma disciolgono. Non ci sono nè la liberazione dell’impulso, né la vitalità che in A snake of June fa danzare nuda la protagonista, finalmente consapevole della propria sessualità (semantizzazione dell’acqua come elemento primordiale, che bagna l’intero film, sensualizzandolo).

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Questa pioggia crolla su una danza scomposta e discioglie le potenzialità espressive del cinema in quelle puramente letterarie della poesia: Kotoko si fa ossimoro danzante di grazia e dolore, maternità e omicidio, ferro e pensiero. E soprattutto, è ossimoro in quanto immagine-parola, figura del linguaggio capace di sottrarre alla polisemia del visto e del visibile il pauroso realismo del rappresentato.